Testo di Francesco Cascino per la mostra Zumbani di Tafadzwa Tega da Mimmo Scognamiglio Arte Contemporanea (Milano)
15 Gennaio 2022
Tafadzwa Tega nasce in Zimbabwe nel 1985 e già a 10 anni, ispirato e circondato da padre e parenti artisti a loro volta, disegna, dipinge e crea immagini di grande impatto identitario inconscio. Sembra una storia occidentale, ed è questo il problema. Dovremmo smetterla di credere che l’Africa sia solo natura e che vada protetta solo per motivi ecologici. L’Africa, fuori da ogni retorica, è un luogo come gli altri, prezioso e vitale più di alcuni altri perché in molti casi è ancora conservato in forma di savana selvaggia e potente, ma le donne e gli uomini che ci vivono sono esattamente come noi, hanno i nostri pregi e difetti come tutti.
Detto questo, perché il vostro immaginario si rimetta nella giusta prospettiva, esploriamo questo artista, quest’uomo, questo straordinario interprete della sua storia.
Che non vuol dire che rappresenti l’Africa, essendo un continente enorme e impossibile da comprendere e conoscere fino in fondo persino per i suoi abitanti. Ci siamo tristemente abituati a sintetizzare complessità attraverso mappe e notizie dei giornali, ma la vita, quella vera, è fatta di milioni di elementi che cambiano ogni istante, e quello che ci tiene in vita tutti è intangibile, invisibile, a volte persino impalpabile, anche se il corpo racconterebbe molte più cose se non ci limitassimo a osservarlo come tanti guardoni dei pixel. La vita è fatta di profumi, vista, olfatti distintivi, tatto e contatto; l’amore, l’odio, il desiderio, le identità, l’orgoglio, la dignità non si vedono, eppure esistono. Anzi, sono la stessa esistenza. Quindi la realtà reale è quella che il pragmatismo spicciolo e realista non vede né prevede, invece è la parte più importante del mondo, e solo l’arte sa esplorarla e portarla in emersione. Tega quindi si è dato il compito di coniugare la realtà fisica e metafisica. Attraverso l’uso potentissimo del colore, per cui è uno dei migliori artisti che io abbia mai visto, racconta storie antichissime di simboli e identità perdute o sopite che resistono al tempo e alle azioni perché sono parte integrante del DNA. Ogni luogo, ogni continente, ogni nazione, regione, città, paesino, frazione e località rurale ha una sua identità, e su questo c’è poco da dire. I dialetti sono espressione di libertà dalle imposizioni linguistiche dei ministeri, ad esempio.
Tutto questo è uno straordinario tesoro, un patrimonio di cultura che dovremmo vivere per imparare mille cose di vitale importanza, tra cui convivere, che rischia di scomparire per l’eccesso di sintesi che la tecnologia impone a chi non ha il senso critico e tattile per distinguere realtà vera da realtà virtuale. Tra le principali vittime della narrazione virtuale della vita ci sono giovani e giovanissimi che, come se non bastasse, in tempi di pandemia e lockdown, hanno interrotto la loro crescita naturale attraverso la definizione del sé che passa solo dal rapporto con gli altri, come per tutti noi, per essere messi di fronte a uno schermo a imparare le vite degli altri. Ma lo schermo è bello quando dura poco. Detto questo, guardate le opere di Tega. Guardatele bene. Hanno i colori dell’Africa, e va bene, questo lo sanno dire tutti. Hanno i colori del genio, come quelli di Andy Warhol, e anche questo è verissimo. Hanno i simboli della rivalsa dalla segregazione razziale messa in opera in Sud Africa e ovunque nel mondo, per cui celebrità, condottieri, re e papi che trovate nei milioni di quadri iconici sono tutti bianchi, salvo qualche rara icona bizantina dove il Cristo è dipinto per quello che era: un nero. Hanno anche i colori di Giotto, quel pittore che ha rivoluzionato il modo di dipingere la realtà esprimendone i semi istitutivi invece di descriverne pedissequamente gli elementi visibili.
Per vedere la realtà del mainstream basta la retina, sembrano dire Giotto e Tega, mentre se volete allenare il terzo occhio, la ghiandola pineale, quella che indica la vera Via e che non a caso è in tutti i giardini vaticani di Roma sotto forma di pigna che fa da pomello, maniglia o corrimano, dovete usare la pittura e cambiare i colori di quel che vedete con i colori di quel che percepite. Hanno i colori liquidi della contemporaneità digitale ma passano lo schermo e parlano di storia, presente e futuro, dialogano e cantano, si spogliano e seducono. È la tecnomagia di Tafadzwa Tega, quella che unisce Africa tribale ed evoluzione digitale per farne un vero cuore pulsante di informazioni e stimoli erotici. Solo così, a ben guardare, potete vedere. Nelle opere di Tega si parla di schermo, di computer, di colori elettrici e psichedelici che sono tipici della realtà virtuale, degli NFT, dell’arte digitale e dei telegiornali di Fox News. Li stessi costruiti per portare le masse a comprare cose inutili e dannose che poi conducono dritto in ospedali e cliniche di proprietà delle stesse emittenti televisive. Nelle opere di Tega c’è la magia del popolo nero che balla e parla con il corpo, esprime l’eros, la vera spinta vitale, col sorriso e con le mani. C’è la savana calma e profumata che induce alla gioia dell’inatteso ma anche al senso del pericolo, c’è l’enigma della stregoneria e c’è la magia delle posizioni simboliche del corpo, ma c’è anche il superamento della black painting modaiola, della retorica sull’apartheid sbattuta in faccia come passiva richiesta di risarcimento che lascia il posto a una riflessione necessaria: abbiamo capito che c’è un mondo reale, passionale e nero da cui abbiamo da imparare come si vive, come si ama, come si tocca, si annusa, si ascoltano i ritmi vitali delle danze e dei tamburi? Abbiamo compreso perché l’invidia per questa bellezza innata ci ha portati prima a renderli schiavi, poi a vivere isolati nei nostri appartamenti, non a caso, mentre loro vivono in agglomerati che creano vicinato e vicinanza? Abbiamo capito che non si chiamano risorse ma maestri? Per non dire di Zumbani, l’erba a cui si riferisce il titolo dell’ultima serie e di questa mostra: un’erba miracolosa che serve a riconnetterci alla natura e alle sue leggi, quindi alla salute che ne deriva e al potere che ci trasferisce, ma anche a costruire il mito, la più antica forma di educazione che i Greci usavano per formare le masse e che hanno tramandato fino ai nostri Romani. Le opere di Tega ci stanno dicendo una cosa fondamentale: senza coltura non c’è cultura ma la prima cosa che dobbiamo coltivare non è la vista, è la visione.
Francesco Cascino Contemporary Art Consultant – Cultural Projects Curator